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Neil Peart: perché è stato uno dei più grandi

Ci sono tanti grandissimi musicisti che per motivi anagrafici molti di noi non sono mai riusciti a vedere dal vivo. Ce ne sono tanti altri che per motivi geografici molti di noi non sono mai riusciti a vedere dal vivo.

Per molti anni, 30 per l’esattezza, chiunque di noi avesse voluto assistere ad uno show dei Rush, sarebbe dovuto andare all’estero. Nel 2004, finalmente, arrivarono in Italia.

Quella al Mazda Palace di Milano fu una data memorabile per ragioni storiche ma soprattutto per aver finalmente visto live un trio che su disco suonava come un’orchestra. 15 anni fa i video su Youtube c’erano, certo, ma non c’era video che rendeva idea di cosa fossero i Rush su un palco.

Le voci che fino ad allora si erano rincorse presero finalmente forma: inutile dire che buona parte dello show ruotava intorno a Neil Peart. Non vogliamo snocciolare aggettivi ridondanti ma ci limiteremo a dire che raramente, in tanti anni di palco, abbiamo visto un musicista così ricco di eleganza, pulizia e capacità di intrattenimento.

Non è stato il primo batterista dei Rush, sull’omonimo debutto figurava John Rutsey, ma il suo nome è indissolubilmente legato a quello della band canadese.

La ragione principale per cui, per il nostro strumento, Neil Peart è stato un vero punto di riferimento è per la sua continua voglia di migliorarsi.

“Eric Clapton said he wanted to burn his guitar when he heard Jimi Hendrix play. I never understood that because when I went and saw a great drummer, or heard one, all I wanted to do was practice”
(Eric Clapton disse che quando ascoltò suonare Jimi Hendrix volle bruciare la sua chitarra. Non l’ho mai capito, perché quando ebbi l’occasione di vedere un grande batterista dal vivo, o su disco, tutto ciò che volevo fare era studiare”

Anni fa conoscemmo Freddie Gruber, un vero drum guru (che ebbe tra gli allievi Vinnie Colaiuta e Steve Smith, per dirne due), e ci rivelò che con Neil Peart fu quasi in soggezione quando gli chiese delle lezioni. “Hey, tu sei già perfetto!”: ecco cosa gli disse. Ma la continua voglia di migliorarsi e di imparare non conosceva sosta.
Rinacque l’amore per il jazz, che spinse Neil ad incorporare elementi jazz e swing all’interno del suo drumming e che probabilmente lo spinse ad ideare il “Burning for Buddy”, un tributo ad un altro grandissimo, con un elenco di musicisti da brividi (Max Roach, Billy Cobham, Steve Gadd, Manu Katchè, Omar Hakim, Bill Bruford, Joe Morello, Dave Weckl, Simon Phillips, Kenny Aronoff e Steve Ferrone, tra gli altri) che culminò proprio con Neil Peart alle prese con una “Cotton Tail” che venne unanimemente riconosciuta come la performance migliore della sessione. Forse sì, Neil era l’unico che potesse indossare i panni di Buddy Rich e lo intendiamo anche nel senso figurato del termine, visto che dall’acconciatura alla maglia dolcevita sembrava proprio voler tributare il grande Buddy anche dal punto di vista estetico.

https://youtu.be/T0gYHLkY4qA

Neil Peart è stato un grande musicista a tutto tondo: musicista prima ancora che batterista. Compositore e autore. E anche scrittore, con il suo “Ghost Rider: Travels on the Healing Road” in cui raccontò un viaggio di 80.000 km in sella alla sua moto alla ricerca della pace interiore dopo aver perso nel giro di 12 mesi figlia e moglie.
Il suo essere schivo ma cortese, l’essere stato sempre lontano da ogni polemica e aver lasciato che fosse la musica a parlare, l’ha reso un idolo a tutto tondo. Oggi è pianto non solo dai batteristi di ogni genere e preferenza, ma da tantissimi musicisti di diversa estrazione.

Era perennemente in cima alle classifiche dei top drummer di fine anno, anche quando i Rush non pubblicavano nulla, ha dettato i canoni della batteria moderna e ha inevitabilmente alzato il tasso tecnico della musica a venire, riuscendo a mettere in riga anche gli ultimi arrivati. Il Re indiscusso di un certo tipo di drumming era ed è lui. Punto.

Non è strano infatti che della sua scomparsa stiano parlando i quotidiani di ogni angolo del mondo e che questa notizia trovi posto anche tra le prime pagine e sui telegiornali italiani. Ma a testimonianza della sua grandezza ci ha sorpreso vedere stamattina gli account social, Facebook, Twitter e Instagram di OGNI azienda produttrice di strumenti musicali, tributare a Neil Peart un affettuoso e sentito omaggio. Non solo i brand che l’hanno storicamente sponsorizzato, ma anche tutti quei nomi che mai hanno collaborato con lui.

E’ una riconoscenza, questa, che si riserva solo ai più grandi.

Ciao Neil, grazie per la musica che ci hai lasciato.

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